LA BALLATA DELLE OSSA

Il fatto che avessi un fratello molto più grande di me e dei genitori che lavoravano dalla mattina alla sera ha fatto sì che, fin da piccola, avessi tutto il tempo del mondo per sprofondare nei miei pensieri, cosa che si è sempre dimostrata bellissima. Ho sempre avuto delle idee balzane, erano il mio tentativo di alleviare la monotonia della vita in provincia. Le idee che mi rimanevano in testa erano sempre quelle più rischiose, di certo le più schiocche e, senza dubbio, di gran lunga le migliori.
Una sera, nell'intimità della mia cameretta, avevo stilato una lista di tutte le destinazioni principali di dove io e la mia migliore amica immaginaria saremmo potute andare e tornare in aereo dalla mattina alla sera. Molte di queste erano in Europa, ma ce n'erano anche un paio in Africa del Nord.
Un'altra incarnazione del "resisti o spicca il volo" consisteva nello scoprire quali voli ci fossero a Linate e scegliere una destinazione a caso, pescandola da una casseruola, altrimenti riservata alla pasta scaduta che mio padre riservava alle galline. Una volta pescata la destinazione, stilavo la lista delle cose da portare in valigia: costumi, infradito, scarpe da ginnastica, lenti a contatto, occhiali da sole.
Altri momenti clou furono partire per la prima volta da sola con un viaggio organizzato, uscire senza pagare da un ristorante a Praga, correre all'incontrario di notte sul Ponte Carlo, indossare i miei abiti migliori e fingere di essere una receptionist a Budapest, finchè alla fine non fui smascherata da un cliente abituale dell'albergo e tante altre cose bellissime e vitali di cui non voglio scrivere.
Non fu la morte di Giò o la psicosi maniaco-depressiva a spingermi a fare quelle cose. Fu pura e semplice ribellione, innescata dalla noia e dalla frustrazione ( questa, per la cronaca, è un'autodiagnosi ).
Non voglio la compassione di nessuno nè l'ho mai chiesta. In fondo mi ci sono voluti tanti anni per decidermi a chiedere aiuto. Ma permettetemi di dire che, nei periodi più bui, la depressione è una malattia davvero tremenda. A volte fa sì che, chi ne soffre, appaia arrogante, maleducato, pigro e introverso, e questo quand'è in giornata buona.
In casa avevo un divano. Non è mai stato particolarmente comodo, ma ha sempre fatto la sua figura. E, cosa più importante, era la prima cosa colorata che vedevo quando tornavo a casa dal lavoro. Nei giorni in cui ero più in balia delle forze oscure, attraversavo la porta, mi sedevo e rimanevo lì finchè non era il momento di andare a letto. Ho scoperto che molti malati di depressione parlano di un luogo che è, per loro, quasi un magnete, un luogo dove si sentono al sicuro e non devono vedere nessuno nè fare nulla. Il divano verde acqua era per me un luogo sicuro e un magnete straordinario. Mi ci sedevo, perchè sapevo che, una volta lì, non mi sarei dovuta più rialzare per affrontare le cose che sapevo di non poter affrontare.
Tutti sapevano che, una volta seduta su quel divano, non mi sarei più mossa. Mia mamma lo sapeva e mi afferrava appena varcavo la porta, mi faceva girare di 180 gradi e mi portava fuori, a pranzo o a cena o in giro per qualche commissione. Passavo tutto il tempo con gli occhi fissi sul cellulare ( non mi piacciono molto gli orologi ), desiderando che i secondi passassero in fretta, per poter tornare di nuovo al mio divano. Una volta sul divano, ci sarei rimasta per il resto della serata. Era quasi una forma di paralisi: non riuscivo ad alzarmi. Come se avessi un peso invisibile sul grembo, che mi impediva di fare qualsiasi cosa. Vorrei sottolineare che la tv non era accesa, non avevo un libro e non parlavo: me ne restavo seduta lì, per ore, un giorno dopo l'altro, terrorizzata dall'idea di andare a letto, perchè sapevo che, quando avrei aperto nuovamente gli occhi, sarei dovuta uscire di casa per andare al lavoro e tutto sarebbe ricominciato da capo.
Con l'aiuto di 25 mg di Lamictal, 15 mg di Noritren, e 5 di Mirtazapina che agiva da sonnifero antidepressivo ( un ossimoro come pochi altri ), oggi sono una persona completamente diversa. Ho ancora delle brutte giornate, ma non mi sveglio più con il terrore di dover affrontare la vita, non guardo fuori dalla finestra della mia cameretta desiderando di essere il più lontano possibile e non vedo più ogni singola attività come fosse la scalata dell'Everest. Nessuna pillola renderà mai piacevole fare la fila in banca o spingere un carrello al supermercato, ma almeno ora quelle piccole cose sono in grado di farle.
Per un periodo le mie poesie migliorarono al di là di ogni mia ragionevole aspettativa. Era come se mi avessero restituito tutti gli anni della mia vita. So che suona strano ma, quando hai a che fare con la depressione, il pilota automatico diventa il tuo migliore amico. Una parte del cervello prende il sopravvento su tutto e, crudelmente, fa il minimo indispensabile per farti sopravvivere. Mi piacerebbe scrivervi che parlare con qualcuno fu la chiave del mio recupero, ma sarebbe una stronzata: furono le medicine, ad aiutarmi.
Sono rimasta seduta per ore mentre degli sconosciuti mi chiedevano: "Quand'è stata l'ultima volta che ha avuto un comportamento violento? Quand'è stata l'ultima volta che ha pensato di uccidersi? In quell'occasione, come immaginava di farlo?". Sembrava tutta roba uscita da The Dark Side of The Moon dei Pink Floyd e quindi rispondevo: " Non ho paura di morire. Quando succederà, mi andrà bene. Perchè dovrei avere paura di morire? Non c'è nè ragione, prima o poi devi andartene ", che, come sapranno i fan dei Pink Floyd, sono versi tratti da quell'album. Non lo capirono mai. Ma gran parte delle cose che ho scritto viene da questo periodo, il che mi porta a sospettare che, forse, quella diagnosi di psicosi maniaco depressiva non fosse poi del tutto sbagliata.
Per la cronaca, non ho mai pensato che sarei arrivata a quest'età. La mia vita è volata. Ci sono stati alti straordinari e bassi devastanti, che forse non riuscirò mai davvero a superare. Quand'ero in ospedale, un giorno lessi la storia di un certo Peter Green, dei Fleetwood Mac originali. Nel disperato tentativo di tenere il passo con l'iniziale successo della band, i compagni di Green cominciarono a fargli pressioni perchè scrivesse un'altra hit. A metà degli anni settanta Green si sottopose all'elettroshock in un ospedale psichiatrico, dopo che gli fu diagnosticata una schizofrenia, scatentata dalla sua incapacità di accettare la fama e il successo della band che aveva fondato. Si era persino fatto crescere le unghie a tal punto da non poter più suonare la chitarra. Questa storia mi è tornata alla mente giusto un paio di paragrafi fa, probabilmente perchè, mentre me ne sto qui seduta a scrivere l'ultimo articolo del mio blog, so che, se proprio voglio essere onesta con me stessa, per circa un anno ho mangiato pesantemente e troppo in un patetico tentativo di ingrassare, perchè nessuno mi guardasse più e tutti si dimenticassero di me.
Oggi quasi tutte le persone che conosco mi vogliono un gran bene e si confidano spesso con me. I miei amici e le mie amiche hanno pianto con me, hanno sorriso insieme a me, mi hanno abbracciata, ascoltata, aiutata. Non mi stanco mai di perdermi nei loro abbracci fortissimi. Mi dà, come cantava Phil Daniels, uno straordinario senso di benessere.
I messaggi, le telefonate, le serate, i miei sorrisi, le mie parole spesso imbarazzate, le mie risate fragorose servono a rendere molto felici le persone a cui voglio bene. E, cosa più importante - almeno per il mio benessere - ho finalmente voltato l'ultima pagina di un capitolo molto turbolento della mia vita. Forse non ho molti beni materiali, ho pochi soldi ma, in quanto a felicità, tutti mi guardano con ammirazione. La mia vita, turbolenta e unica com'è stata, resta lì, per tutti quelli che vogliono conoscerla. Il mio nome è piccolo ma sta un pò dovunque, perfino su una pietra in cima all'Etna. Ma la cosa davvero importante, molto più di tutte queste sciocchezze, è che il mio nome continua a vivere, nel mondo reale, giorno dopo giorno, attraverso tutte le persone che mi hanno anche solo incrociata a una festa, all'autogrill, sul pullman di un viaggio organizzato.
E questa, me lo ripeto sempre, è l'unica cosa che nessuno potrà mai portarmi via.

Jù.

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