LUCE GUIDA

Ero attaccata alla rete del rettilineo dopo il Tamburello, in piedi sul muretto di cemento. Prima di entrare, un bagarino aveva venduto a Damiano - il fratello dieci anni più vecchio di me che mi aveva portato lì a cavallo della sua moto, facendomi guidare per tre quarti del viaggio - due biglietti del giorno prima. Era il 1994, un caldo 1° maggio, mi trovavo a Imola per assistere al mio primo gran premio di Formula 1 e avevo da poco compiuto diciassette anni.
Fin lì, era stato un fine settimana molto oscuro. Il venerdì la Jordan di Barrichello era volata, letteralmente, contro la rete di recinzione della variante bassa, il sabato Roland Ratzenberg, alla sua prima gara, si era schiantato a 300 all'ora sul muretto della curva Villeneuve. Uno era coperto di contusioni e con il setto nasale rotto, l'altro era morto.
Ayrton Senna era per la sessantacinquesima volta in pole position. Chi gli era vicino sostiene che in quei giorni un'ombra rassegnata e impaurita gli piegeva lo sguardo e il volto in espressioni che non erano sue. Molti credevano che la ragione fosse incastrata tra le lamiere delle vetture di Barrichello e Ratzenberg, altri nella sua, quella Williams fino alla stagione precedente imbattibile, la cometa che a detta di chiunque lo avrebbe riportato all'unico posto che gli spettava: il primo. Eppure di quell'auto non riusciva a venire a capo. L'eliminazione di buona parte dell'elettronica l'aveva resa un cavallo imbizzarrito, l'abitacolo era troppo stretto e Senna aveva dovuto rinunciare alla misura del suo volante, molto più grande degli altri. Ma c'era di più, era come se avvertisse qualcosa di definitivo, come se tutto improvvisamente avesse perso senso. Il sabato, registrando un commento del circuito per un canale francese, aveva concluso con un saluto ad Alain Prost e confessato che sentiva la sua mancanza. Sapeva che il pilota francese il giorno seguente sarebbe stato in cabina di regia. "Un saluto speciale al mio caro, il nostro caro amico Alain Prost. Ci manchi molto". Proprio a Prost, il suo grande nemico, l'uomo con cui si era litigato per anni i campionati del mondo e i favori della McLaren, l'uomo con cui si era vicendevolmente sbattuto fuori in due seguenti edizioni del gran premio di Suzuka. Prima della partenza, fermo in prima fila, Senna si sfilò il casco e lo tenne sul cupolino della sua Williams. Non lo aveva mai fatto. Se riguardate le registrazioni di quei momenti, lo potete vedere appoggiare la nuca al retro dell'abitacolo, sospirare profondamente, scuotere la testa.
Quel 1° Maggio, il Gran Premio non voleva partire. Da dove ci trovavamo, appena prima della Villeneuve, vedemmo sfilare le auto per il giro di prova, poi una lunga catena di giri dietro alla safety car. J.J Letho, rimasto fermo alla partenza, era stato violentemente tamponato da Pedro Lamy. Sembrava guardarli tutti negli occhi, quel gran premio, dire "ragazzi, lasciate perdere, oggi i pianeti non sono con voi".
Una volta sola li vedemmo sfilare a tavoletta, Ayrton in testa e Schumacher dietro. Poi l'attesa, l'urlo dei motori in lontananza, noi che ci attacchiamo alla rete ancora il ricordo del metallo sulle mani, i cavi di ferro che mi rigano il volto per vedere meglio. E quel proiettile lanciato verso il muro, i pezzi che saltano in giro come fuochi d'artificio, l'alettone che in fondo al serpentone di macchine viene sollevato da terra come un coriandolo. Poi il silenzio. Un intero circuito automobilistico ammutolito.
Immagino che certe cose le intuisci tuo malgrado. Le ambulanze, i medici, le voci sommesse che passano tra la gente, l'elicottero.
Ayrton è ricordato soprattutto per la sua maniacale dedizione e concentrazione. Era simpatico, era bello, piaceva a tutti. Credo che Ayrton sia diventato parte di quella minuscola manciata di amici i cui contorni si dissolvono lentamente fino ad assumere più la sembianza di fratelli.
Forse Ayrton voleva vivere la vita, tutto qui, e se possibile farla vivere anche agli altri. Ecco ciò che forse ognuno vedeva in Ayrton. Ciò che tutti vedevano meno era lo sguardo ombroso e rassegnato di chi di tanto in tanto gli appariva in volto, lo stesso che obbliga me in tante occasioni a trascinarmi fuori a distrarmi e lo stesso che rivedo ogni volta nelle registrazioni degli occhi di Senna prima della partenza di Imola, quel 1° maggio 1994.
Che c'entra Ayrton con me?,  che nel 1994 avevo solo sette anni ed ho solo immaginato di essere ad Imola, quel giorno, con mio fratello. Questa la semplice domanda che mi faccio da anni, mentre mio malgrado vedo i nostri volti sovrapporsi nella mia testa. Che c'entrano la concentrazione e il talento e la dedizione dell'uno con la mia sinistra leggerezza? Per qualche brevissimo istante, fino a poche settimane dopo il gran premio, qualcuno accennò alla possibilità che Senna fosse andato a sbattere apposta contro il muretto del Tamburello. Non fu così: si ruppe il piantone dello sterzo, malamente modificato e risaldato nottetempo per rendere più comodo l'abitacolo. Tra l'altro, a ucciderlo fu un braccetto della sospensione, proiettata dall'angolazione dello schianto dritta verso il suo casco. Per il resto, il corpo di Ayrton non presentava alcuna frattura o contusione: se non fosse stato per quel braccetto sarebbe uscito dall'abitacolo con le sue gambe.
Quindi, alla fine dei conti, restano semplicemente due vite, due vite che a modo loro - almeno per alcuni attimi - intravedono ciò che ognuno insegue: tutto l'arcobaleno dei colori, la sensazione che il mondo ti ama, di essere uno dei felicissimi risultati dell'evoluzione. Figlio non tanto dei tuoi genitori, ma dell'umanità. Proiettato verso il più luminoso dei futuri possibili. Improvvisamente consapevole, però, che forse quel futuro è già passato.
Ad Ayrton, forse, è stato semplicemente concesso il grande privilegio di uscire di scena prima che tutto si sgretoli.

Ju.

Nessun commento:

Posta un commento