PARTENZA

Uno dei temi ricorrenti della nostra cultura e del nostro immaginario è che il viaggio sia la grande metafora dell'esistenza umana.
Vi sono, distribuiti in modo vario e incontrollabile, viaggi a cui si è costretti ( Adamo e Eva ) e viaggi voluti ( Ulisse ); viaggi del corpo in uno spazio fisico, viaggi della mente che indaga, viaggi della fantasia che costruisce nuovi mondi; e, tra tutti, il più temuto e cercato allo stesso tempo, il viaggio dentro noi stessi.
Ma perchè un viaggio esista deve esistere una partenza. E perchè esista una partenza serve volontà, che spesso si traduce in una scelta si separazione. Da qualsiavoglia anima o luogo.
Ebbene, partire: dal latino partire o partiri, cioè "dividere". Qualcuno da qualcun altro o da qualcosa. E per quanto appaia intrisa di malinconia, la definizione di separazione - e quindi di partenza - non dovrebbe suscitare nessuna paura. Partendo, s'impara che non esiste alcuna acquisizione di verità. Quando ti avvicini a una cosa, puoi scoprire che non c'è, che svanisce e allora ne scorgi un'altra più lontana a cui rivolgerti. E scegli di partire di nuovo. Ma attraverso questo continuo inseguire delle cose che non esistono, esisti tu. Ciò che si perde in verità, dunque, lo si guadagna in consapevolezza. Quella di esistere, appunto.
Quella che un piccolo movimento individuale può provocare cambiamenti significativi nelle circonvallazioni del mondo che ci contiene, dalla più stretta alla più periferica.
Partendo, s'impara che si possono perdere autobus e aerei restando vivi lo stesso. Presto o tardi, qualcuno ripasserà a prenderci.
Partendo, si scopre che per far passare la paura, bisogna fare le cose avendo paura. Presto o tardi, quella, se ne andrà.
Il movente di ogni partenza è un motore potente e prezioso. Ci obbliga a scegliere se correre o camminare al nostro stesso fianco, ci suggerisce che il nostro stesso abbraccio è più importante di quello anelato che potrebbe non arrivare mai, ci racconta della solitudine e della condivisione.
Partire è una convivenza necessaria e coercitiva con le nostre scelte e le relative rinunce. Dal contenuto di una valigia, alla conservazione di un ricordo. Ci costringe a coniugare l'esaltazione per il nuovo con lo sconcerto dell'imprevisto. E' al contempo, meraviglia e insidia.
La partenza e un'opportunità: di andare con, ma anche di andarsene da. E' moto per luogo, a luogo, da luogo. E, in un processo di separazione costruttiva, le due metà - partite - avrebbero il preciso dovere di ricostruirsi nella loro più integra identità. Di riconoscersi, come soggetti autonomi, consapevoli e in movimento. Soltanto allora potranno ricongiungersi e festeggiare il ritorno.
Perchè solo due unità, e non due metà, sono la premessa di un amore autentico.
"Perciò, / partiamo, partiamo che il tempo è tutto da bere, / e non guardiamo in faccia nessuno, che nessuno ci giuarderà. / Beviamo tutto, sentiamo il gusto del fondo del bicchiere; / e partiamo, partiamo, non vedi che siamo partiti già?" ( Viaggi e miraggi di Francesco De Gregori ) .

Bacioni!

Jù. 







LA SINDROME DI JOHN KENNEDY

Questa amica si siede, beve un sorso, mette giù il bicchiere, dice: "Non devo più vederla. O salterà la mia storia. Non posso permettermelo. Tronco oggi, adesso. Basta. Mai più. Cancellata".
Aspetto. Si crogiola nella decisione presa. Offro consulenza psicologica per cinque centesimi. Dico: "Bene. Poi ti prenderà la sindrome di John Kennedy".
"In che senso?"
"Tu diventerai John Kennedy".
"Spiegati".
"John Kennedy. Governa meno di tre anni poi muore ammazzato. Giovane, bello, sorridente, atterrato al Love Field con la promessa di una nuova frontiera. Conosci la storia. Muore. Da martire. E diventa un mito. Cinquant'anni dopo siamo ancora qui, ossessionati, a parlarne. Chi l'ha ammazzato? Come scopava? Amava, a modo suo, Jackie? Ma soprattutto: che presidente sarebbe stato se non fosse morto a Dallas? Come sarebbe cambiato il destino di tutti quanti? Il punto è questo: se Kennedy vive, delle due l'una, o diventa davvero un grande e svapora, manco rieletto come un Carter o sputtanato come Clinton. Anche se non ce li vedo, perfino i repubblicani, a criticare un uomo per essere andato a letto con Marilyn, mica Monica. Invece Kennedy muore e diventa molto più che un grande. Diventa un mito, appunto. Il fantasma di quel che avrebbe potuto essere e non è stato. L'icona del rimpianto. La donna con cui vuoi troncare adesso, subito: stessa cosa. Falla fuori oggi e diventa John Kennedy. Forever. Fra qualche anno, decennio, alla fine della vita, ti girerai indietro e ti domanderai: come sarebbe stato se? O peggio, ti dirai: quanto sarebbe stato bello se. E' una sindrome inevitabile. Donna avvisata: stai ammazzando John Kennedy".
Mi guarda perplessa e spaventata. Sa che c'è del fondamento nelle mie parole. Potrei farle decine di esempi.
Prendete James Dean. Fa tre film (niente di che) e muore. Brucia la sua gioventù, come da copione. Avesse vissuto, avesse fatto trenta film, delle due l'una: o diventava un memorabile Marlon Brando oppure un trascurabile Matt Damon. Invece: il John Kennedy dello schermo.
Da bambina vidi giocare nella Lazio un giovane centrocampista di nome Roberto Baronio. Il prossimo Bulgarelli, si disse. Un pugno di partite stupende e poi un brutto infortunio per un'entrata killer di non ricordo chi. Baronio è stato uno dei miei Kennedy. Se non si fosse rotto chissà che sorte diversa e magnifica avrebbe avuto la Lazio.
Li riconosco al volo le persone che hanno incontrato John Kennedy. Non è difficile, è capitato quasi a tutti. Prima o poi uno compie l'errore che sta per fare la mia amica: prendere una storia qualunque e farne un mito, il rimpianto dei giorni d'inverno, John Kennedy.  A cinquant'anni dalla sua morte, Jill Abramson, direttrice del New York Times, ha scritto un articolo dal titolo The Elusive President, il presidente inafferrabile, in cui afferma che: "Valutarlo è impossibile, poichè il martirio ha sovrastato l'uomo che era e i risultati che ha ottenuto". Poi aggiunge: "Su di lui hanno scritto quarantamila libri e non uno che fosse degno di nota". Dissento.
Qualche mese fa ho finito If Kennedy Lived, di Jeff Greenfield. L'autore è un commentatore televisivo appassionato di storia alternativa, quella che comincia dalla domanda: che cosa srebbe successo se? E dà tutte le risposte. Se, scrive Greenfield, a Dallas la mattina del 22 novembre 1963 avesse continuato a piovere, l'auto del presidente avrebbe mantenuto il tettuccio sollevato, il plexiglas avrebbe fatto parziale scudo ai colpi sparati da Oswald, Kennedy sarebbe stato ferito, ma sarebbe sopravvisuto, ancora una volta.
Idolatrato dalla gente, avrebbe conquistato un secondo mandato contro Goldwater. Avrebbe ritirato le truppe dal Vietnam, avviato un rapporto con Kruscev, scaricato Lyndon Johson. Avrebbe difeso i diritti civili, seppur con prudenza e per tornaconto. Dopo otto anni con lui, l'America sarebbe passata direttamente a un'altra star, Ronald Reagan: impossibile a quel punto retrocedere a Nixon. Jackie non avrebbe divorziato:  uscendo dalla Casa Bianca sarebbe andata direttamente a New York con i figli a occuparsi di editoria, risparmiandosi l'odissea greca. If Kennedy Lived, se Kennedy avesse vissuto. Invece smise di piovere, il tettuccio fu abbassato e il resto è storia. James Dean è bruciato, Roberto Baronio ha smesso anzitempo di giocare a pallone. E la mia amica troncherà la relazione pericolosa.
Dopodichè, per altri cinque centesimi, la verità.
Noi vogliamo John Kennedy nelle nostre vite. Ci serve qualcosa che finisca adesso perchè possa non finire più: un fantasma a futura memoria, il dolce riampianto che verrà, quella cosa che, arrivati al fondo di una vita con alti e bassi, potremo rievocare per dire che abbiamo avuto l'altra possibilità e se avesse continuato a piovere, se non ci fosse stato l'incidente, se non avessimo troncato, sarebbe stato tutto stupendo: diritti civili, due Oscar e avremmo vissuto felici e contenti.
In lode delle vite non vissute s'intitola non a caso l'ultimo libro della psicostar inglese Adam Phillips. In lode. La storiografia alternativa è una consolazione, un esercizio di stile, una medicina immaginaria.
La vita è quel che resta dopo ogni bivio, dopo la curva dietro la quale hanno sparato a John Kennedy.
Sarebbe stato meglio se avesse continuato a piovere.

Bacioni!

Jù. 



CAPO DI BUONA SPERANZA

Di ricerca della felicità, nell'omonimo film diretto da Gabriele Muccino, si inizia a parlare solo quando il protagonista, Chris Gardner, tocca il fondo della disperazione.
"In quel momento" ricorda Chris "cominciai a pensare a Thomas Jefferson e alla Dichiarazione di Indipendenza. Quando parla del diritto che abbiamo alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. E ricordo d'aver pensato: come sapeva di dover usare la parola "ricerca"? Perchè la felicità è qualcosa che possiamo solo inseguire e che forse non riusciremo mai a raggiungere. Qualunque cosa facciamo".
Alla fine, il suo attimo di felicità Chris lo raggiunge. Come lo raggiungono i protagonisti delle storie di vita autentica che ho conosciuto nella mia vita. Non prima, però, di aver elaborato il dolore e di aver affrontato il pericolo; non prima di essersi liberati dalle situazioni di sopraffazione e di sfruttamento della vita. Così da lasciare ai pensieri più profondi e alle esigenze più nascoste la forza di esprimersi e di trasformarsi in azione contagiosa.
Perchè la felicità - che non è mai un continuum, ma una condizione effimera nell'esperienza degli esseri umani - è prima di tutto un agire. Ci spinge, ogni volta, a cavalcare, nel mare dell'inconscio, i moti fluttuanti del dolore, della paura, del disagio, della difficoltà. della solitudine, dello sfruttamento, del destino avverso con lo spirito e l'abilità creativa di un surfista che converte l'energia delle onde in equilibrio.
La felicità è il tempo, di leopardiana memoria, strappato all'attesa: il sabato pensa alla domenica come alla promessa della gioia, ignaro che nel momento di preparazione della gioia stessa sia contenuto, in realtà, l'autentico piacere. Perchè essere in cammino verso la felicità vuol già dire essere felici.
"Il segreto della felicità" sostiene Pericle "è la libertà e il segreto della libertà è il coraggio". Il vero coraggio consiste nella capacità di operare scelte che non siano sottomesse alla schiavitù della paura, del bisogno, dell'opportunità, del giudizio, del timore, del ricatto, della sopraffazione, dell'angoscia di morire e di quella di vivere.
Ho intuito che per essere felici forse bisogna sdoganare la libertà e il coraggio della paura e considerare ogni percorso piacevole e spiacevole della vita come lo considera Steve Jobs, ovvero "il premio è il viaggio": l'esperienza e la forza delle intuizioni trasformate nella concretezza di progetti che cambiano la vita.
Per mia mamma - mia anima, mia forza e mio coraggio - la felicità è agire con la mente del cuore; per il barbone che ho conosciuto alla mensa della Caritas la sera della notte di Natale è la difesa della libertà da tenere ben caldo nel tepore di una coperta; per Jù, il dono di essere capita e compresa, medicata così da un balsamo che lenisce le ferite più profonde.
A ogni storia - parafrasando una celebre frase di Martin Luther King - la paura bussa alle porte dei protagonisti; il coraggio va ad aprire e vede che non c'è nessuno. Eccetto la felicità.
L'aspirazione di ogni essere umano che si fa identità.

Bacioni!

Jù.

IL RITMO.

Avete presente, no?
Quando all'improvviso si spegne la luce. Poi si riaccende, ma tutto quello con cui eravamo abituati a identificare la nostra vita è sparito.
Quando, per dirne una, lo spazzolino accanto al nostro, in bagno, non c'è più. Quando non c'è più nessuno, la sera, con cui parlare, perchè non c'è più nessuno: punto.
O quando, magari, arriviamo al karaoke, facciamo per sederci vicino a lei, e invece no. Quella persona non è più nostra, quel sorriso: tante grazie, la nostra storia finisce qui, cerca di essere felice, ci verrà detto, poi.
O quando traslochiamo da un posto che era davvero casa e ci ritroviamo in un posto dove niente riesce a esserci familiare. O quando i figli crescono, se ne vanno, quando i genitori pensano: e adesso? O quando i genitori muoiono.
Quando ci si lascia, quando si parte, quando si rimane, quando qualcosa si spezza e non si ricompone. Quando si cambia, ecco.
Avete presente: quando si cambia?
Lì per lì sembra mortale. Eppure, forse, non c'è niente di più vitale. A me sta capitando ancora.
Diciamo che sono costretta a farlo: le prime tre esperienze che ho snocciolato come esempio all'inizio di questo pezzo mi sono cadute addosso, senza nemmeno il buon gusto di avvisarmi.
Per quasi un mese non ho capito più niente di quanto mi succedesse dentro e attorno.
Niente.
Fatto sta che, giorno dopo giorno, a un certo punto arriva quello in cui ti svegli e scopri di essere sopravvissuta. Non è una bella scoperta, lì per lì: perchè se il tuo cuore, lentamente, riprende a pulsare, se la tua testa riprende a girare, non hai comunque più una vita a cui metterli a disposizione.
Così dal dolore scivoli nello smarrimento.
Io stavo per affondarci, quando un'amica straordinaria, il 21 dicembre scorso, mi ha buttato lì: "Sai che cosa consiglia Rudolf Steiner, in momenti come questo? Di giocare".
"Giocare?".
"Si. Perchè non provi a fare ogni giorno, per un mese, per dieci minuti, una cosa che non hai mai fatto prima?".
"Tipo?".
"Tipo qualunque cosa. Ascoltare una musica nuova. Fare la doccia dai vicini".
"E alla fine cosa si vince? Riavrò la mia vita indietro?". Non l'ho chiesto, ma l'ho sperato. E, siccome non ho proprio niente da perdere, ci sto provando.
Ho cominciato da uno smalto fucsia alle unghie dei piedi. Ho ascoltato un pò di musica classica. Ho camminato di spalle per il centro della città, per dieci minuti. E, mentre una misteriosa elettricità iniziava ad attraversare le mie giornate, ho capito che l'unico libro che posso scrivere è quello che sto vivendo.
Non riesco a considerarmi una ex fidanzata ferita, piuttosto una ex fidanzata spudorata, malgrando e grazie all'autofiction che, qui e là, mi viene in soccorso. Ma più di tutto, per me questi giorni sono un amuleto, il diario di giorni pazzi in cui sto cercando, piano piano, di fare tante piccole cose che non ho mai neppure contemplato.
E forse, mentre sarò distratta dal gioco, non me ne accorgerò ma cose grandi, enormi, entreranno ed usciranno dalla mia vita. Una specie di figlio. Un amore. Soprattutto la possibilità di non resistere al cambiamento. Di rinunciare a quelli che credevo gli unici confini possibili per me. E invece erano limiti.
Perchè "me", cioè chi? Me lo chiederò al trentunesimo giorno. Ve lo chiederete anche voi, se proverete a giocare. La risposta vi stupirà e diventerà il vostro amuleto. A forma di un mese che non si limiterà a durare un mese, da lì in poi vi accompagnerà, con la promessa luccicante di quanta vita c'è, fuori dagli schemi di quella che consideriamo l'unica giusta per noi, oggi e sempre.
Perchè il punto, tanto, è sempre quello. Il tempo. Quando stiamo più o meno bene è il nostro più prezioso alleato e quando stiamo male, invece, si trasforma nel nostro più pericoloso nemico. Ma anche in quei momenti riserva infinite manciate di dieci minuti da riempire come ci pare.
E da cui ricominciare.

Bacioni di Buon Anno!

Jù.