CUORE IMPERFETTO

Ciao nonno,
lo so, non credere, lo so che cosa stai pensando: "Ma che cosa è saltato in mente a mia nipote di scrivermi una lettera! Perchè mi tormenta? Lo sa che voglio essere lasciato in pace. Non chiedo niente, mai chiesto niente a nessuno".
E' vero, lo so che cosa vuoi. Lo sai fin troppo bene tu, e da un certo momento in poi hai deciso di farti da parte. Niente domande, pochi consigli. Ti sei sforzato di accettare, anche se troppo tardi, il mio modo di essere, continuando a volermi bene come sapevi, come potevi.
Ma questa lettera non la scrivo per parlare di te. Questa lettera la scrivo per parlare di me.
Vorrei parlare di Jù, seconda figlia di genitori non più giovani che l'hanno cresciuta come un fiore raro, che hanno voluto per lei il panino a merenda, le vacanze al mare e sogni abbastanza ambiziosi.
Così ecco che Jù si ritrova in una bella casa, un giardino quasi enorme e, finalmente, un computer.
Jù è una tipa strana sin da piccola. A sei anni si lava e si veste da sola. E' testarda, ogni mattina si impunta, vuole mettere gli stessi jeans, la stessa maglia, le stesse scarpe. E' un problema lavarli e farli asciugare per il giorno dopo. E' un problema sostituire le scarpe vecchie con un paio identiche.
Avevo più o meno undici anni, nonno, quando ti sono scappata di mano, nessuno è più riuscito a capire cosa succedeva nella mia testa. Stavo pomeriggi interi rinchiusa in camera mia, da sola, a smontare e rimontare puzzle, una passione partita da una scatola di cinquecento pezzi arrivata a Natale da uno zio.
E tu? Tu per un pò ti sei illuso di essere indispensabile alla mia crescita. Ma papà c'era poco e quando c'era, leggeva. E io, era come se non ci fossi, o peggio come se facessi finta che nessuno ci fosse.
"Dove ho sbagliato?" E' questa la domanda che mamma ha fatto al dottor Poloni la prima volta che si è seduta davanti a lui, nel suo studio giallo e colmo di libri che all'inizio mi metteva a disagio. Da Poloni ci sono andata per un anno di fila, tutti i giovedì alle quattordici e trenta, quarantacinque minuti alla settimana.
Era come salire su uno di quei montacarichi che affondano nelle viscere delle miniere. Un viaggio nel buio, a cercare con il lanternino le mie colpe, i miei errori. Chiedevo a Poloni continue conferme sulle domande che come bolle salivano a galla, spiavo la sua faccia ed ero convinta che mi considerasse una pazza.
Il dottore non parla. Non parla mai. Parlo solo io. In un anno ho sentito la sua voce solo quando mi diceva "Buongiorno, si accomodi" e "Ci vediamo giovedì prossimo". Eppure anche quel silenzio è servito. Questo blog, a pensarci bene, e il coraggio di scriverlo, lo devo anche a lui.
Adesso capirai meglio perchè.
I pazienti di un analista non si incontrano tra loro nella sala d'attesa. O almeno così è successo a me. Tutte le volte aspettavo il mio turno in una stanza, con la porta chiusa. Da mesi, mentre me ne stavo lì, a volte impaziente di entrare, a volte con la voglia di scappare via, sentivo la voce dell'uomo che prima di me sedeva sulla poltroncina davanti a Poloni. Una voce fonda, molto pacata. Una bella voce. Di quell'uomo intravedevo anche la sagoma attraverso il vetro smerigliato della porta chiusa. Alto, dai movimenti fluidi e lenti come la sua voce.
Un giorno, sono in ritardo sull'orario della seduta, aspetto trafelata l'ascensore e appena la cabina si ferma sul pianterreno apro con impeto la porta e quasi investo il paziente bella-voce. Non ho dubbi che è lui. Istintivamente lo saluto e gli dico qualcosa del tipo "Adesso tocca a me".
Lui capisce al volo e sorride. Sorrido anch'io. E' così che ho visto papà, tuo figlio, in veste di paziente.
Tutto questo accadeva più o meno due anni fa.
Poi ho deciso di buttare all'aria la mia vita così regolare e programmata. Ho sofferto. Abbandonata nella mia stanza bunker, arrabbiata per essere "diversa".
Io non parlavo con nessuno, ma parlavo con me stessa, non ho mai smesso.
Mi ricordo quando attraverso la porta chiusa della mia stanza facevi commenti ad alta voce o ti affacciavi con una scusa. Io non rispondevo mai, ma ascoltavo. Macinavo, ragionavo e le mie rare battute penso ti facessero capire che dietro quell'atteggiamento scontroso si nascondeva una grande tenerezza.
Tu mi hai accolta come una benedizione. E io ho considerato un regalo del cielo l'amore che tu mi hai dimostrato ogni giorno, senza nessuna sottrazione.
La vita che avevo scelto fino a qualche tempo fa era piena di rinunce. Ero sola, non avevo amici, avevo perso un compagno, non credevo nell'amore. Erano rinunce grandi, rinunce che non portano da nessuna parte se non a un isolamento che con gli anni avrebbe rischiato di essere assoluto.
Ho avuto paura della tua morte, più di quanto ne abbia della morte stessa, perchè sapevo che quando non ci saresti stato più, non avrei più potuto contare sui tuoi preziosi insegnamenti.
Nonno, io non posseggo nulla. Non ho beni personali, se non un telefono e i regali dei miei amici ma sai qual è stata la vera ricchezza? L'umiltà che mi hai insegnato. La mia eredità è questa.
Ti abbraccio forte, ovunque tu sia.

Jù.

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