NE' VINCITORI NE' VINTI.

Ho coltivato a lungo il culto della sconfitta con un orgoglio e una superbia adolescenziale, ci stavo bene dentro ai panni della vinta, fin troppo comoda, e disprezzavo i vincitori come fossero esseri banali, prevedibili, addirittura opportunisti, sempre dalla parte del trionfo, sempre sul carro giusto, gente che mai ha assaporato il gusto agrodolce della caduta e della polvere.
Gli sconfitti mi sembravano eroi romantici, belli e dannati, schiantati nei loro ideali dall'urto contro una realtà che è per definizione mediocre e prepotente. Amavo tutta una schiera di perdenti, un pantheon in cui trovavano posto figure lontanissime tra di loro, accumunate solo dalla sfortuna: Carlo Pisacane e Paperino, Che Guevara e Vercingetorige, Bonnie and Clayde e Toro Seduto, Dorando Petri e Jim Morrison, Leopardi e la banda Bonnot, Tenco e Borromini, poeti, sportivi, rivoluzionari, musicisti segnati dalle stimmate della digrazia, pronti però ad accettare il loro destino sino in fondo, fino alla morte. La festa, le medaglie d'oro, gli allori andassero pure agli altri, a quei miserabili dei vincitori. Vincere mi sembrava da cattivo gusto, sono i padroni quelli che vincono, sono i peggiori. E' facile vincere, basta mettersi in linea coi tempi, obbedire alle regole del gioco, arraffare la posta.
Quando si è giovani si ama accanitamente la rovina, soprattutto se ciò che crolla ha la nobiltà celeste delle illusioni. Poi gli anni sono passati, e ho cominciato ad approffitare di questa posizione di lucky loser, in fondo sui ragazzi esercitava sempre un certo fascino: e allora avevo fatto partire la recita della diversa, di quella che alle feste non balla e non partecipa, che se ne sta da sola alla finestra con un bicchiere in mano e si gratta la fronte, che non entra nella mischia. All'eroismo perdente avevo fatto subentrare una sorta di vaga e improduttiva malinconia: voi altre fate, fate pure, sbattetevi a più non posso, occupate in fretta i posti migliori nella società, io me ne sto da una parte, io sono un'anima bella, ho pensieri e sentimenti che non vi sto neanche a spiegare, io ascolto Eddie Vedder e mi immaliconisco nella mia dolce e sublime sconfitta.
Quante ne ho viste di ragazze così, che magari alle spalle avevano padri e madri che lavoravano come matti per permettere alle loro esangui figlie di invecchiare in pace nella loro stagnante prosopepea di sconfitte.
Di colpo qualche dubbio è affiorato nella mia coscienza, come un delfino che salta fuori col suo muso ridente. La maturità mi ha portato nuove domande, mi ha costretto a riconsiderare ciò che pareva assodato una volta per tutte. Si può provare a vincere senza essere necessariamente delle carogne? Chi vince deve vergognarsi del suo risultato? E' per forza un conformista, un ruffiano, un furbetto? O invece a una certa età bisogna uscire da quella dimensione da "spiriti tisici", come Hegel definiva i poeti romantici, e cercare di fiorire nel mondo, di dare comunque un contributo a una società migliore? Tutto cambia superati i vent'anni, se non si vuole appassire nell'arida regione degli sprezzanti, dei nichilisti a tempo pieno, dei perdenti sempre contenti di sè.
E' stato un passaggio difficile da compiere, ma è stato un passaggio necessario per abbracciare più vita, per dare un senso e un'energia ai miei giorni.
Certo, la vincitrice contemporanea è ricca e potente, narcisista e cafona, quella che chiama i riflettori su di sè, quella che tutti invidiano e tutti vorrebbero essere: oggi la sconfitta ha perso anche il suo fascino maledetto, la sua aurea beata, e così verrebbe voglia di difenderla a oltranza.
Ma io credo che, nonostante le invidiose vincenti di oggi, dobbiamo comunque cercare di uscire dal mito della sconfitta, trasformando la malinconia in azione, senza seppellire tre metri sotto terra o sopra il cielo i nostri talenti. Bisogna saper perdere, come cantavano i Rokers tanti anni fa, ma bisogna anche saper vincere, perchè rimanere incagliati nel vittimismo e nel piagnisteo è la scelta peggiore. Ognuno dia il meglio di sè, che non è poco. E non importa se non passerò tra gli applausi e i lanci di rose sotto l'arco di trionfo, importa solo tirare su la testa e dire io ci sono, io ci provo, non voglio sconfiggere nient'altro che l'inerzia e l'apatia, la vità è grande e ci deve essere un posto anche per me, costi quel che costi.

Il Solito Enorme Bacione a Tutti.


La Jù.

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