GOING UP THE COUNTRY

Le parole miagolate in filodiffusione dal finto Stevie Wonder sono un colpo durissimo per il mio umore. Evidentemente, penso, sono conciata proprio male se anche la regina delle canzoni generiche mi rimanda a Te. Il problema è che tutto sembra parlarmi DI Te. Le canzoni alla radio, le scene d'amore nei film, le scene d'odio nei film, le pubblicità scadenti di nuove tariffe telefoniche...Mi alzo per prendere una boccata d'aria, perchè sento di averne veramente bisogno. Non mi metto la giacca e l'aria gelida mi attraversa la bocca, facendomi solletico alla gola: la sua reazione al freddo mi diverte ogni volta. Sorrido e mi schiarisco la voce in modo molto bergamasco. Ovviamente quando si fa qualcosa di imbarazzante pensando di non essere visti da nessuno ci si sbaglia sempre.
In un angolo del cortile, vicino alla catasta di legna tagliata per il camino e ai margini di tutto il bailamme festaiolo, Marco se ne sta seduto, concentrato sul suo flute di prosecco scadente come se stesse cercando di contare le bollicine che fanno a gara per risalire la superficie opaca del bicchiere. Forse non mi ha nemmeno notato. Lo osservo a lungo prima di decidere se avvicinarmi o meno. Normalmente mi sarei fatta i fatti miei, lo avrei lasciato immerso nei suoi pensieri senza disturbare. Di solito, a essere onesti, non mi sarei nemmeno accorta di lui. Ma forse tristezza chiama tristezza, forse le persone sole finiscono per essere sole insieme. Forse sembrava l'unica persona più depressa di me e speravo che fare quattro chiacchiere con lui mi avrebbe tirato su di morale. Speravo mi raccontasse qualcosa di smodatamente tragico e irrisolvibile. Magari questa mattina, appena prima di venire qui, era stato dal dottore che gli aveva diagnosticato un cancro al fegato, ho fantasticato per un secondo.
Speravo mi raccontasse qualcosa di serio, insomma, qualcosa al cui confronto il fatto di sentirmi così sola potesse sembrare un problema trascurabile. Sempre grave, certo, ma obiettivamente meno di un ipotetico cancro al fegato. Almeno io potevo ancora bere. Lo avrei riscaldato con uno sguardo pieno di partecipata commiserazione e gli avrei detto: "Ehi, mi dispiace un sacco..." e poi avrei provato a dire qualcosa per consolarlo del tipo "Sì, ma ora non buttarti troppo giù, dicono che al giorno d'oggi l'Aids può essere curato...ti posso magari offrire qualche schiocchezza al bar, ti va?".
Ma forse sono solo un'inguaribile ottimista e quindi mi avvicino con passo cadenzato, simile a quello che poche ore prima ha esibito mia madre per raggiungere mio padre e fare pace.
"Ehi..." faccio io.
"Ehi" fa lui alzando leggermente lo sguardo ma non la testa.
"Anche tu superfan dei compleanni?" provo a buttare lì per rompere il ghiaccio.
"Già..." Ok, così non andiamo da nessuna parte. Marco si alza in piedi e inspira forte facendomi pesare la mia interruzione.
"Come va il lavoro?" aggiunge immediatamente, tanto per cambiare argomento.
"Bè...insomma, diciamo che siamo in un momento di pausa creativa...ma sai i clienti comprano in questo periodo, sotto Natale..." gli rispondo io tutta presa, dimenticandomi per un secondo che la sua era più che altro una domanda di circostanza.
"Certo, certo...bè ma quel tuo blog...come si chiama?"
"Machissenefrega?"
"Già, quello! Ecco, quello non è male."
"Già...già...non male, ma mi viene ogni volta una specie di ansia da prestazione, paura di essere poco credibile...cazzate così...sai com'è' no?"
"So com'è, certo" mi risponde abbassando nuovamente lo sguardo verso il bicchiere in cui lo spumante stava iniziando a riscaldarsi. "Bè, cerca ispirazione dalla vita di tutti i giorni, no?" mi consiglia. "Senti questa, prendi ad esempio questo compleanno, inquadratura su un ragazzo che sta per diventare maggiorenne. I suoi occhi sognanti. Puoi leggerci dentro tutto l'amore del mondo." E mi guarda come a dire "Bè, che te ne pare? " Mi pare che io sto messa di merda, ma anche tu non scherzi. Ecco cosa me ne pare.
"Forte" gli rispondo non troppo convinta. "E dovrei scrivere qualcosa su questa festa?"
"Non lo so...Forse le persone che credono che questa giornata faccia schifo? Come questa vita? Che ne dici? Comunque dammi retta, è una fortuna che tu non sia fidanzata..."
Una piccola scossa elettrica mi attraversa le tempie come una coltellata. Marco non se ne è nemmeno accorto e per fortuna, dopo qualche secondo, i muscoli, i nervi e i tendini si rilassano quasi contemporaneamente.
"Perchè, anche tu e Francesca..."
"Macchè...magari! No, no...siamo ancora insieme. Ma non puoi immaginare quanto inizi a odiare questa parola. Sono quasi sei anni, ormai. Insieme."
"Bè, ma non sembra che abbiate problemi, voglio dire a vedervi da fuori."
"Ogni giorno torno a casa sperando di aprire la porta e non trovarla più. Di trovare un biglietto in cui mi chiede di perdonarla ma ha deciso di andarsene per sempre."
"Ammazza, che esagerato...sai, le donne in genere preferiscono sentirsi dire robe tipo "ti amo, sei la mia vita" o "tieni il bancomat..." ridacchio da sola cercando di stemperare i toni di una discussione che si sta facendo più deprimente di quello che speravo.
"Ho provato a parlarle, a spiegarle che le cose devono cambiare...ma ogni volta che accenno il discorso scoppia a piangere e la discussione finisce. Non riesco ad andare avanti e mi sento in ostaggio della mia paura. In trappola. Non sono più felice, capisci? Un tempo lo ero e soprattutto credevo che lo sarei stato anche in futuro. Ora se penso al futuro mi viene da depressione. Sai qual è la verità? La verità è che la coppia è peggiorativa. Vince sempre il più meschino, il più cattivo, il più egoista. Cambiare una persona è difficile, ma migliorarla è impossibile. Ci si appiattisce sempre verso il basso e in questi anni, tutti e due, siamo solo riusciti a peggiorarci a vicenda. Abbiamo preso quanto di peggio avevamo entrambi da dare." Marco si concede una pausa sconsolata di silenzio, come se stesse riascoltando mentalmente le sue ultime parole per prenderne coscienza, prima di aggiungere: "In più è un periodo che mi parla di figli. Di bambini, capisci? Ma io non posso...sarebbe il più grosso errore della mia vita in questo momento...con questa donna..."
"E cosa hai intenzione di fare? Con lei intendo..." domando, riuscendo per la prima volta da quando sono stata lasciata a non pensare a me stessa.
Respira profondamente, come se questa confessione gli costasse uno sforzo fisico considerevole, e poi prosegue.
"Vorrei trasferirmi, dare una scossa a tutto quanto. Ricominciare da capo. Ho un pò di soldi da parte, quindi ho il culo parato per un periodo...Se non lo faccio adesso, quando potrò averne di nuovo l'occasione?"
"E con il lavoro?" mi sono permessa di chiedere.
"Cos'è? Vi siete messi d'accordo?" mi ringhia contro.
"No, è che mi sembra una domanda legittima...sensata..."
"Ma cos'è quest'ossessione per il lavoro? Perchè siete tutti convinti che il lavoro ci sia solo qua, a non più di un chilometro da casa dei vostri genitori? Ma dico, non avete voglia di girare il mondo, viaggiare, sperimentare, essere liberi per vostro stesso merito? Perchè avete così paura?"
"Non è paura...è che..."
"Che cosa?"
Non lo so. Non so cos'è. Non so perchè me ne stavo lì in piedi davanti a lui a cercare di convincerlo a restare. Aveva negli occhi un coraggio che non pensavo potesse appartenergli. Mi sembrava così strano sentirlo parlare in quel modo, che quasi non lo riconoscevo più.
Ripenso a quando ci siamo conosciuti, ai tempi delle medie. Marco era un compagno con il quale era piuttosto facile andare d'accordo. Non si lamentava mai ed era sempre accondiscendente col prossimo, e questo lo rendeva certamente il ragazzo più polare della scuola. Ricordo che una volta persino l'insegnante lo segnò assente sul registro nonostante lui fosse seduto bello composto nel suo banchetto. Qualche ragazza tendeva ad approffitarsi della sua pacatezza e, tra questi, io ero forse la più figlia di puttana. Mi piaceva giocare con lui perchè potevo essere sempre la più forte.
Alle superiori io e Marco ci perdemmo per un pò di vista, fino al giorno in cui tutti lo persero di vista. Aveva iniziato a lavorare come cameriere stagionale in un ristorante per raggranellare qualche soldo mentre si trascinava tra un esame e l'altro all'università quando come in un film, una sera, l'ultima sera della sua stagione, all'ultimo minuto dell'ultimo sera, l'ultimo cliente si presentò in cassa per pagare un caffè. Pagò con due euro e Marco doveva dargli un euro e venti di resto.
La leggenda vuole che per farsi una risata, prima di deporre la divisa, iniziò a scherzare con il cliente sul taglio delle monete che doveva rendergli come resto e, sempre leggenda vuole, che il cliente fosse un direttore di una delle più importanti banche del nostro paese. Rimase colpito dell'ormai prossimo ex cameriere e gli consigliò di trovarsi un lavoro che lo valorizzasse maggiormente, e così gli lasciò il suo biglietto da visita. Marco tornò a casa con un sorrisetto ebete stampato in faccia. Forse per la prima volta qualcuno si era accorto di lui senza averlo dovuto prima investire con la macchina.  La mattina dopo, non senza averci pensato prima un pò su, aveva chiamato il numero scritto sul cartoncino perla in formato 8x5.
Dal momento in cui riagganciò la cornetta, e questa non è leggenda ma sacrosanta verità, nessuno lo vide più ciondolare per le strade strette della provincia nè in nessun altro posto.
Si chiuse in casa per un anno intero. "Sto studiando i mutui" diceva ai pochi fortunati che riuscivano a parlargli al telefono. Ora lo consideravano proprio un coglione. Avevamo tutti diciott'anni e ci stavamo appena affacciando al decennio in cui una persona può fare più sesso che in tutto il resto della sua vita e lui stava in casa a studiare i mutui. Qualunque cosa volesse dire. Poi, di punto in bianco, nel giro di altri 365 giorni era già diventato uno dei primi venti mutuisti in tutta Italia con uno stipendio superiore a quello di mio padre, e aveva solo ventidue anni. La vita cambia. Chi è il coglione adesso, eh?
Suppungo che questa sia una di quelle storie dalle quali valga la pena tirare fuori un insegnamento, ma io ho sempre preferito berci su.
Comunque, tornando alla sua domanda, mentre ero lì in piedi a fissarlo e continuavo a provare un inspiegabile senso di fastidio che mi faceva pulsare le tempie, mi stavo gradualmente rendendo conto che aveva ragione. La mia non era paura. Era invidia. Quel sentimento maledetto che striscia talmente sottopelle che non te ne accorgi nemmeno, finchè non ha ormai raggiunto il cuore. E' come l'avaria che sta facendo affondare la tua nave e di cui ti accorgi troppo tardi, quando i topi hanno già rosicchiato tutti i fili del motore. Marco parlava sul serio. Non era una di quelle uscite del tipo "vado in Messico ad aprire un chiringuito sulla spiaggia". Non era impazzito urlando ai quattro venti di voler partire per andare a fare il cameriere di Burger King a Londra solo perchè gli piacevano tanto i Clash. Lui aveva un piano in mente e, conoscendolo, era piuttosto sicuro che ce l'avrebbe fatta. Il suo piano prevedeva una scelta difficile, la scelta che la maggior parte di noi non riesce a compiere: andare avanti.
In piedi, davanti a lui per un tempo che sembrava adesso interminabile, mi stavo chiedendo se avessi la metà del suo coraggio. Mi sembrava chiaramente di no e per questo lo odiavo. Lui non aveva paura di perdere, ma voglia di ottenere. Chissà se almeno ne era consapevole? Era il primo giorno della sua nuova vita. Avrebbe dovuto segnarlo sul calendario e festeggiarlo ogni anno come il suo nuovo compleanno. Quello della presa di coscienza.
Avrei voluto levare i calici e brindare con lui. E poi sfasciargli il bicchiere in pieno muso dall'invidia. Avrei voluto farlo alzare e mettermi a ballare con lui.
Aveva capito che la vita è fatta di eccessi e mancanze e che difficilmente riusciremo mai a tenerci stretto per sempre quello che ci fa sentire sicuri oggi. Aveva capito che aggrapparsi con tutte le proprie forze a un palo piantato nel terreno non è sufficiente a non cadere, e che solo restando in continuo movimento si è in grado di assorbire meglio i colpi.
Una parte di me avrebbe voluto congratularsi con lui, mentre l'altra parte di me, quella più stronza e incredibilmente quella che preferivo ascoltare, cercava di spaventarlo sollevando dubbi sulla sua scelta. Avrei dovuto incoraggiarlo invece di fargli delle domande del cazzo sul lavoro. Ma le persone sono spesso così. Pronte ad abbattarti con un bazooka se ti vedono volare troppo in alto, mentre loro se ne stanno con i piedi seppelliti due metri sottoterra. Quando hai il coraggio di fare qualcosa che gli altri non sono nemmeno in grado di sognare, tutti provano a scoraggiarti.

La Jù.



LE TASCHE PIENE DI SASSI

E' una questione di mani. Alcune volte mi prudono talmente forte dalla voglia di prendere a pugni qualcuno, altre invece sento scivolare tra le mie dita qualcosa di effimero come un nome, una stagione, qualcosa che dovevo stringere forte e invece ho lasciato andare via, per poi richiudere la mia mano col pollice tra le altre dita, come se fosse ferito. A volte un anello soffoca un dito e non riesco più a levarlo e rischio d'impazzire. Altre volte l'anello spezzato che mi aveva regalato mio fratello mi ricorda che certi legami sono come nodi gentili, mai troppo stretti.
E poi ci sono le mani perfette. Perchè è come provare un paio di guanti o ereditarli di nuovo da tuo fratello e scoprire che ti sono troppo larghi, ma ti devi accontentare.
Invece delle mani perfette ce n'è un paio soltanto per ognuno di noi in tutto il mondo. Il problema è che le mani non possono urlare. E quando si riconoscono vorrebbero urlartelo affinchè tu possa capire e quelle mani stringergliele. E non permettere mai che si stacchino da te. Ma tutto ciò che riescono a fare è provocarti una cascata di brividi che stavolta non parte dalla schiena, ma dal palmo.
E raggiunge la testa in un secondo febbrile. E il sangue nelle tue vene impazzisce.
Non ci siamo sposati perchè io non credo al matrimonio.
Lo vedo come un volgare contratto. Lui invece voleva solo una promessa. Nella buona e nella cattiva sorte. Ma in chiesa non c'è l'uscita di sicurezza e quel tipo di legame a me andava stretto. Gli dicevo che preferivo sentirmi libera di andarmene in qualsiasi momento. Meglio l'egoismo della finzione.
E lui non me l'ha impedito, non ha nemmeno lottato per farmi cambiare idea. Ha detto solo due parole: "Va bene".
E poi ci siamo lasciati. E pensare che a lui bastava un mio sguardo per chiudere gli occhi. Non dev'essere stato abbastanza bravo nella parte del menefreghista. Io stessa gli ripetevo spesso che gli stronzi sono più affascinanti. Ora si sente così stronzo...solo che per lui credo che quella parola significhi qualcos'altro. Provo pena per le sue illusioni. Ho smesso di credere che l'amore sia un punto fermo se devo sempre stargli dietro a correre senza poterlo tenere tra le mani, mai più di un qualche secondo "perchè se no arriva l'abitudine".
A ripensarci è stato infantile da parte mia credere ai "per sempre", però anche dolcissimo. E se tornassi indietro immagino che la penserei uguale, perchè quei brevi attimi in cui ho fatto finta di ignorare la realtà delle cose, mi è sembrato veramente che potessero durare.
La felicità. Una sera abbiamo quasi litigato perchè ero sbronza e gli avevo detto che la felicità non esiste. Che arriva e non resta mai. L'ospite che non inviti. L'ospite che se ne va prima che tu gli chieda di rimanere. Io quell'ospite l'ho cercato in tante di quelle persone sbagliate che mi sono stufata di fare feste e preparare inviti. Doveva essere questione d'equilibrio. Per imparare ad amare senza versare addosso all'altro tutto l'oceano che abbiamo dentro. O almeno, una goccia alla volta. Non importa se qualcuno se ne va via prima di aver anche solo assaggiato mezzo bicchiere.
Ma secondo me chi sa descrivere bene le cose, chi conosce le parole giuste da usare insomma, quelle cose non le ha mai vissute appieno.
Perchè l'equilibrio è precario per definizione. Si cade e si torna sul filo.
Che a volte si spezza di colpo anche se tu, quello stracazzo di baricentro per non scivolare, l'avevi trovato.
E così me lo immagino solo nel letto a parlare al soffitto ad alta voce, nella speranza che io senta, dovunque e con chiunque sia oramai. E chiedermi scusa per le volte che è stato possessivo nei miei confronti. Un altro modo sbagliato per spiegarmi la cosa giusta. Una cosa da niente. Che a me ci teneva, ma non riusciva mai a tenermi. Perchè bisogna aver paura ma fidarsi. Mischiare dolcezza e cinismo. Scrivere e non mandare. Incazzarsi ed essere comprensivi. Dirsi ti amo e poi tenerselo per sè. Essere sicurissimi ma restare nel dubbio. Dirsi per sempre e poi ci siamo lasciati. O pensare che ti bastavano i miei occhi per chiudere i tuoi.

La Jù.

LA SERA CHE NON SONO MORTA

C'era un vecchio disco dei Pink Floyd che non piaceva a nessuno. Cominciava con una macchina che sfrecciava e una radio che mandava notizie. In sottofondo potevi sentire quelle che sembravano monete fatte saltare in una mano.
Io adoravo quel disco. Parlava di guerra. Guerra e padri che se ne vanno. Ma a distanza di tanti anni ho capito perchè mi affascinasse tanto. Non era la musica, che pur mi lasciava senza fiato. Erano i suoni che ogni tanto buttavano in sottofondo.
Suoni di bombe laceranti, piccole vite di bambini che piangevano, lacrime colossali in cortile, catene e cancelli aperti bruscamente, il vetro di una finestra che si infrange, gomme di autocarri che scivolano sul ghiaccio, la scintilla della testa di un fiammifero che prende fuoco, la lamiera di un aereo che fischia nel cielo, la pioggia che piange sul tetto di una fabbrica, cani che latravano vivi, porte sbattute dal vento, radio e macchine. Macchine, appunto.
E l'atmosfera. Perchè da un momento all'altro una canzone dolce si tramutava in tragedia, la voce si affilava e perdeva calore, tagliava un solco tra le orecchie, le chitarre sanguinavano, vedevi i colori ed erano tutti scuri, bui. Saltavano i vetri.
E alzavi il volume a palla per riuscire a distinguere quelle parole straziate là in fondo. Erano sotto milioni di strumenti eppure la mia attenzione dribblava bassi, batterie, corde e finiva sempre lì.
Tra il lucido ticchettìo di un orologio a muro e una risata sinistra c'era qualcuno che lanciava il suo urlo disperato. Un messaggio in una bottiglia raggiungeva solo me.
Ma i brividi più forti li beccavo in un punto preciso. Il mio corpo lo sapeva e aspettava per goderseli. C'era la solita voce calma in sottofondo che parlava alla radio. Poi calava il silenzio e quando quasi ti c'eri abituata, quando eri tranquilla, il rumore assordante di una bomba atomica sconvolgeva tutto e potevi sentire di nuovo la voce di prima che adesso era come liquefatta dalla tensione, gridava allarmata che quasi potevi vederla scappare in preda al panico, fuori dalla gola.
Era lì che avevo i brividi più forti. Nell'eco della bomba che inseguiva il vento. Quando partivano tre note di piano.
E' così che prima ho pianto. Quando mi hanno lasciata sola e non dovevo più tenermi tutto dentro. Quando mio padre ha rimesso quel disco e ho ripensato a quella sera. Quando la mia RADIO, nella mia MACCHINA, mandava una canzone dolce, poco dopo cena. Quando guidavo sui settanta ed è scoppiata una GOMMA in curva.  Quando ho realizzato che stavo per saltare il guardrail e finire in un fossato e ho frenato e si è ribaltata la macchina, in un fiume di SCINTILLE che l'hanno viste dal cielo. Quando ho battuto la testa contro il TETTO sfracellato sull'asflato e c'erano VETRI e CD dappertutto.
Quando stordita e obbligata a tenere l'orecchio sinistro sulla spalla, ho avuto freddo. Un freddo terribile passare dalle mie ossa di vetro fino al compact disc rigato del mio cuore. Una coppietta su una Punto rossa modello vecchio mi stava dietro, ma riuscì a evitarmi e scomparì nelle fogne della notte, pieni di spavento. Spero pieni di colpa- almeno quella notte- per non avermi soccorso.
E solo un CANE s'era accorto di me, abbaiando forte nel CORTILE a poche decine di metri dal mio incidente. Quel cane che sembrava chiamare il mio nome o forse solo qualcuno che mi tirasse fuori di lì o che forse voleva farmi sapere che l'avrebbe fatto lui, non ci fosse stato quel CANCELLO di mezzo. Ai cani non manca la parola affatto.
E mentre restavo lì, immobile, a non capire niente, guardavo il fumo uscire dal radiatore e solo allora mi accorgevo che la radio continuava a suonare, noncurante, menefreghista e fredda come il GHIACCIO. Ma quella radio mi stava regalando una certezza, quello che volevo sapere. Non ero morta.
Non volevo restare a esplodere coi rottami di una LAMIERA, ma la portiera era bloccata. E mentre le ruote della mia macchina si godevano le stelle del primo maggio, fu strisciando a testa in giù che riuscii a raggiungere e forzare l'altra PORTA quel tanto, da permettermi di uscire incolume. Non un graffio. Sessantaseimila chilometri in quattro anni sfasciati contro una riva.
Il VENTO sbuffava annoiato sui miei jeans e colpiva ancora, quasi a ricordarmi che non s'era emozionato per niente e non sarebbe stato una VITA di meno a farlo smettere.
Non ero morta, ma per sentirmi viva dovetti aspettare che arrivassero le LACRIME. Mie e di Marianna, che mi strinsero insieme in un abbraccio così spontaneo da strapparmi alla paura.
E quando vali quel tanto da far venire voglia a qualcuno di cingerti con le sue braccia, sei di nuovo un essere umano.
E così questa sera ho pianto con la targa in mano.
E non per la paura, la tristezza o il dispiacere di aver distrutto una Polo. Credo sia stato come certe volte per i neonati che piangono per farti sentire che ci sono. Che sono VIVI. A pensarci tutto torna. Perchè di guerra si tratta sempre. Tutto è andato come in quel disco. Uguale. Solo maiuscolo, perchè vissuto particolare per particolare, fuori dalle tracce di quelle canzoni, sulla mia pelle.
Fabrizio mi chiede se ho pensato a tirar fuori subito la radio.
Mio padre mi presta la macchina e ho paura di guidarla.
Enrica mi chiede se voglio un passaggio. Tiziano mi chiede se vogliamo berci su. Io resto in silenzio. Ed è lì che ho i brividi più forti. Nell'eco della bomba che insegue il vento.
Quando partono tre note di pian(t)o.

Si sa.
E' più facile
Gridare nella confusione
Che sussurrare nel silenzio.


La Jù.

MIO FRATELLO E' FIGLIO UNICO

Volo Orio-Olbia.
Sto scrivendo la pagina più importante di questo quaderno cominciato tanti anni fa per contenere il mondo che ho dentro, quello del quale non avrei mai parlato al mondo che è fuori.
Da qualche mese ho compiuto ventiquattro anni e credo di aver mosso il primo vero passo d'amore verso me stessa. Ho parlato con mio fratello.
Non mi vergogno ad ammettere di averlo fatto, probabilmente, per disperazione: l'importante era farlo.
Era venuto a prendermi in aeroporto. Arrivavo da Olbia insieme a mamma e, dopo aver lasciato lei con papà, quando Damiano e io siamo rimasti soli, è arrivata la domanda. La più ovvia, innocua, banale domanda del mondo: "Come stai?".
Il "come stai" di chi la risposta se la immagina, ma aspetta e rispettosamente ascolta.
Uno di quei "come stai" dietro al quale vorrebbero irrompere altre mille domande, mimetizzate dal tono dolce di chi ti vuole veramente bene. Dalla tenerezza di quando dici molto meno di quello che stai domandando.
Il tono era preoccupato, circospetto, come sospeso, il tono di chi fa una domanda potenzialmente deflagrante. E io non ce l'ho fatta a far finta di niente e a rispondere "bene".
Non sono riuscita a cambiare discorso in fretta, a raccontare di come sono contenta delle cose che ho scritto in albergo di notte, dell'allegria che ho assaporato con persone che forse non rivedrò più, di quanto sarà bello tornare a scrivere a casa e di come sto pensando a pubblicare un libro e fare altre mille cose per cambiare il mondo. No.
Forse a ventiquattro anni l'istinto di autoconservazione diventa prepotente, e lo spirito adolescenziale di autocommiserazione per fortuna si spegne. O forse i miei giorni di esilio-da me stessa, dall'amore, dalla vita- ormai erano troppi e quel "come stai" ne aveva decretato la fine.
Mi sono guardata dall'esterno e mi sono vista per quella che sono: una ragazza in perenne conflitto con se stessa, che si condanna per una colpa della quale si è sempre fatta carica soffocando il dubbio che non fosse sua. Perchè non c'era verso, io la vedevo proprio come una colpa.
Chissà come mai, per una volta, ho provato tenerezza invece che rancore verso me stessa. Quale Dio mi ha concesso il miracolo di non vedermi più come la mia peggior nemica?
Credo sia stato il mio Dio Rock, quello che ho pregato per anni, nonostante il timore che il primo a non accettarmi per quella che sono fosse Lui. Il Dio tutto Mio che non ho mai smesso di interrogare, sforzandomi di credere che- qualsiasi cosa dicano gli altri- Lui ama tutti, sempre e comunque, vittoriosi o sconfitti, felici o disperati.
Fatto sta che Dio Rock era con me nel momento in cui ho confessato: "Non ce la faccio più".
Adesso so che è stato il gesto d'amore più grande che potessi concedermi, ed è vero che l'amore porta amore.
Mio fratello ha capito, non c'è stato bisogno di spiegare niente. Mi ha detto che non dovevo più aver paura, che avevo il diritto di stare bene e il dovere di non permettermi il contrario.
E che chiunque mi impedisca di credere che non merito di essere felice deve stare lontano da me, perchè è chi odia che ha l'obbligo morale di nascondersi, non chi ama.
L'amore chiama amore. Mio nonno lo ripeteva spesso, eppure per me era una frase sfigata.
E' come se, per anni, avessi chiesto a tutti di amare e di amarsi incondizionatamente. Come fosse una missione, come se sperassi che ci riuscissero almeno gli altri, non riuscendoci io. E dietro ogni scritto c'era un piccolo avvertimento: l'amore per non finire male, per non finire soli, per non finire...come me.
Dovevo arrivare a ventiquattr'anni per capirlo, e adesso è così chiaro.
La sera abbiamo festeggiato il ritorno dalla Sardegna. C'era tanta gente e ne avevo voglia.
C'era la musica, mio nipote, i miei zii, le mie zie, la mia immensa e pittoresca famiglia insomma, ho fatto tutto quello che volevo con chi volevo, e già mi sembrava di guardare tutti con aria diversa.
Non mi interessava più cosa gli altri pensavano di me, mio fratello mi aveva detto che chiunque mi giudichi non merita di starmi, di starci, accanto, e io mi ero accorta che aveva ragione.
Perchè giriamo il mondo alla ricerca delle risposte che abbiamo a portata di mano? Perchè continuiamo a cambiare casa quando "casa" è dove c'è chi ti ama?
Forse perchè l'uomo è l'animale più stupido che ci sia, o semplicemente il più fragile. O forse perchè è impossibile evitare le salite, i sentirti più impervi e le buche del nostro cammino.
Mi sento così diversa mentre scrivo questa pagina. Per la prima volta non chiuderò il quaderno augurandomi che nessuno lo legga mai. Per la prima volta sono io che voglio farlo leggere a tutti.
Oggi vorrei dire a chi sta male di non aver paura, di cercare con calma le risposte nel passato, ma soprattutto di cercare la comprensione e l'affetto di chi gli vuole davvero bene.
Oggi vorrei prendere tutto il dolore che mi sono portata dentro e raccontarlo a chi è soltanto all'inizio di questo cammino e sta soffrendo.
Gli spiegherei che ci vogliono tempo e pazienza...e poi ancora tempo e ancora pazienza.
Perchè non siamo tutti uguali, ed è bene cosi, e ognuno va avanti a modo suo, con i suoi tempi e i suoi modi.
E' vero, imparare ad amarsi è difficile, e questo è quanto.
Bisogna rispettare l'orologio del cuore, prendere le distanze, ascoltare la propria fragilità. E' così delicato, il mondo che custodiamo: non si può avere fretta.
C'è un percorso da compiere. Lungo o breve che sia, dobbiamo seguirne le curve, le salite, i tratti più insidiosi, asseccondare il tempo e il mutare delle stagioni. E, con fatica, prima o poi qualcosa succederà.
Non sappiamo mai quanto manchi all'arrivo.
Può essere questione di minuti, si può aspettare lustri o ci si può morire.
Io ci ho messo giusto giusto...ventiquattr'anni e una chiacchierata con mio fratello.

La Jù.